Cosa ci resta dell’esperienza Global Tools?

Una brevissima esperienza, durata solo tre anni fra il 1973 e il 1975 che non ha prodotto nulla (o quasi)! Eppure, al netto della breve durata l’esperienza Global Tools resta vivida e rilevante nella storia del design moderno e contemporaneo.

Il racconto di questo gruppo di progettisti che diventeranno fra i più importanti architetti e designer della seconda metà del Novecento apre uno spiraglio su un nuovo modo di concepire la progettualità e la pedagogia, ci lascia uno scorcio su uno spazio ideale dove l’educazione coincide con la vita.

Chi sono i Global Tools?
I Global Tools sono un gruppo di giovani designer e architetti che insofferenti al mercato fortemente capitalista e consumistico e a una scuola “di controllo” si uniscono per creare un nuovo modo di concepire l’insegnamento e il progetto.

I Global Tools vedono nella progettazione elementare e basica seguendo pratiche semplici e talvolta rudimentali una ripresa e un riscatto della capacità progettuale della persona. Il loro tentativo era quello di far “coincidere” educazione e vita.
Gli autori principali protagonisti della breve esperienza fiorentina, che vedrà la deriva quando dopo circa 3 anni dalla nascita quando una parte del gruppo che ormai aveva ottenuto una certo riconoscimento nel mercato attuale decide di dislocarsi a Milano, sono le figure più importanti del design italiano del secondo Novecento, fra loro ricordiamo Ettore Sottsass, Ugo La Pietra, Gaetano Pesce, Gianni Pettena, Dal Lago, Dalisi, Buti; i collettivi Archizoom, Superstudio, Gruppo9999, Ufo e Zziggurat per non dimenticare il supporto mediatico di Alessandro Mendini che in qualità di direttore della rivista Casabella appoggiava le iniziative e i workshop del gruppo. Fra i partecipanti dei workshop si ricordano anche esponenti dell’Arte Povera e Concettuale tra cui Germano Celant, Luciano Fabro e Giuseppe Chiari.

Proprio i workshop sono un punto fondamentale della metodologia Global Tools. Erano degli incontri laboratoriali, dove i protagonisti del movimento si interfacciavano con degli esperimenti legati alla progettazione interdisciplinare. La peculiarità della metodologia del gruppo era l’assenza di docenti così come quella di studenti, i ruoli erano sovrapposti in modo da creare uno scambio equo di esperienze. L’obiettivo era scardinare la didattica universitaria stabilendo un nuovo modo di insegnare direttamente legato all’esperienza collettiva del progetto.

Elemento fondamentale di questo approccio era la multidisciplinarità, l’obiettivo era quello di formulare una comune strategia didattica multidisciplinare e sperimentale per non disperdere il patrimonio eterogeneo e complesso di visioni e metodi che si andavano formando nei diversi contesti di apprendimento.

Questa nuova scuola di design e architettura era pensata come un sistema di laboratori finalizzati alla propagazione dell’uso di materie e tecniche naturali con una forte impronta ecologica, questo modo di operare era atto a stimolare il libero sviluppo della creatività individuale.

L’esperienza Global Tools risulta estremamente concettuale e immateriale. Il loro lavoro è un discorso trasversale e multidisciplinare fra le arti e le pratiche.
Adolfo Natalini in un documento del 1973 ci spiega che lo scambio di esperienze fra chi è esperto di tecnologie (poi definite povere) come legno, ceramiche, sartoria, musica, cinema, danza (e tanto altro!) potesse costituire un approccio ideale al conseguimento del compito dei Global Tools:

“Quando l’educazione coinciderà con la vita”.

In quest’ottica, il contenuto e lo strumento educativo coincidono valorizzando l’esperienza diretta, progettuale e costruttiva. Per ottenere questo scopo bisognava spogliare la produzione e la progettazione dalle tecnologie più avanzate in modo tale da rendere accessibile a tutti il processo di formazione.

Questo tornare indietro tecnologicamente era chiamato, processo riduttivo che prevedeva la realizzazione di film, libri e artefatti “homemade” e adattati da oggetti di seconda mano.

Le parole di Andrea Branzi ci aiutano a capire il fine di questo processo riduttivo:

“…rimuovendo la tecnologia, anche temporaneamente […] andando oltre i limiti delle sicurezza tecniche, sarà possibile permettere l’accesso libero al processo creativo e costruttivo ad un intero strato della popolazione che è esclusa dall’ars ardificandi”.


Capiamo da queste parole che le pratiche dei Global Tools erano legate ad un’idea di ritorno al passato, quasi un andare verso un primitivismo che però, a differenza della corrente artistica, non consisteva nella ripresa di estetiche e linguaggio tipici del passato ma bensì si proponeva come nuovo metodo per dare a più persone la possibilità di progettare.

In questo contesto possiamo vedere l’approccio visionario all’ecologia che i Global Tools proponevano attraverso l’utilizzo di materiali naturali e pratiche semplici e non industriali. Il rifiuto della città e avvicinamento alla natura era caro a tutti i gruppi di ricerca che si formarono durante i tre anni di attività.


I Global Tools si divisero in cinque gruppi disciplinari di ricerca: Comunicazione, Corpo, Costruzione, Sopravvivenza e Teoria.

I vari workshop e laboratori organizzati principalmente fra Firenze e Milano si proponevano di indagare nuovi metodi e pratiche creative. I gruppi spesso si contaminavano e lavoravano insieme producendo oggetti, ma soprattutto documenti, fotografie, performance e progetti.

Tutto la produzione Global Tools si porta con sé una forte componente utopica e visionaria che affascina gli studiosi seppur si porta con sé alcune criticità. Gli stessi autori protagonisti di questa esperienza dichiararono una sorta di damnatio memoriae verso il loro lavoro nel collettivo una volta conclusa questa esperienza.

Cosa resta della loro esperienza?

Perché conoscere da vicino un’esperienza così utopica e allo stesso tempo fallimentare? Solo tre anni di lavoro con poco e nulla che resta, gli stessi autori che cercano di dimenticare questa esperienza, ma allora cosa ci resta dell’esperienza Global Tools?


Uno spiraglio, uno spiraglio che ci lascia intravedere un modo inedito e popolare di immaginare l’educazione artistico-progettuale. Attraverso questa fessura sul passato possiamo osservare come quelli che sono stati i più grandi autori del design italiano hanno immaginato un modo di insegnare che non si conformasse con l’ambiente accademico autoritario e autorale che comandava la formazione di architetti, progettisti e artisti del tempo.

Questa idea ci è cara se consideriamo come ancora la maggior parte della formazione di alto livello legata alle discipline artistiche sia molto elitaria.
Eppure, tesoro delle esperienze del design radicale, ci sono esempi virtuosi che cercando di restituire al popolo una possibilità di progettare la propria realtà senza allinearsi ad un’idea di cultura alta ed elitaria che taglia fuori la maggior parte della popolazione.Popolazione che attraverso delle pratiche popolari di progettazione era inclusa nel tessuto urbano e culturale attivando così un vero e proprio meccanismo di formazione empirica.

Importante per capire questo punto di vista è l’esperienza con i ragazzi del Rione Traiano (Napoli) che Riccardo Dalisi ha portato avanti per diversi anni. In questi laboratori, i così detti scugnizzi lavoravano e sperimentavano con Dalisi per manipolare e reinventare l’ambiente urbano, un qualcosa di assurdo pensandoci con gli occhi della contemporaneità (figuratevi con quelli del tempo) ma che in quel momento grazie ad un’esperienza attiva di progettazione ha portato alla formazione di un coeso gruppo di lavoro.


Questo episodio ci fa vedere con occhi diversi alcune pratiche che tutt’ora sono tipiche di un certo tipo di design e curatela forse definibile “sociale”. Sono tante (ma mai abbastanza) le iniziative che coinvolgono ragazzi dei quartieri di periferia, persone comuni e anche carcerati per cercare nuovi metodi di riqualificazione del tessuto sociale.

In fondo, quello che resta di queste pratiche è l’energia che qualcun altro possa trovare per riproporle ancora, probabilmente fallire nuovamente ma nel tentativo di restituire un metodo alternativo di fare progetto.


Per approfondire il tema vi consigliamo Global Tools, Nero Editions, di Valeria Borgonuovo e Silvia Franceschini.

Since the early 20th century, knitwear has stood as a symbol of modernity, versatility, and liberation. Its stretchable, form-fitting nature offered an unprecedented sense of ease and movement, reshaping how people dressed for both everyday life and physical activities. Knitwear broke away from the rigidity of traditional tailoring, becoming the garment of choice for a new era defined by dynamism and innovation. Whether on the tennis courts, at the beach, or during leisure time, knitwear became the trusted ally of a society embracing change, freedom, and a more active lifestyle. Its timeless appeal continues to bridge functionality and style, securing its place as a cornerstone of modern fashion.
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