Fino al 31 luglio nell’area espositiva di 10 Corso Como sarà possibile visitare una breve ma efficace retrospettiva sul lavoro del designer Yohji Yamamoto, curata da Alessio de’Navasques.
L’esposizione presenta una raccolta di capi dal 1986 al 2024.
È interessante notare come sia complicato distinguere i modelli fra le varie stagioni, questo risalta l’approccio avanguardistico del designer che ha creato un modo del tutto personale di concepire l’abito.
L’esposizione nasce con la volontà di raccontare il rapporto fra l’abito e il corpo attraverso questo confronto fra il lavoro delle origini e quello più contemporaneo; infatti, la “lettera al futuro” è dedicata alla madre sarta, in questa grande lettera è possibile confrontare e misurare il suo senso del futuro e come la sua relazione fra corpo e abito abbia superato la dimensione temporale.
Gli abiti vestono dei manichini sartoriali lungo il perimetro della sala ed è possibile girare intorno ogni abito. Questa modalità di fruizione dell’oggetto ci consente di osservare l’abito per quello che è, un oggetto tridimensionale che si relaziona sempre con il corpo che veste.
La prima differenza fra un vestito e un’opera d’arte è la funzionalità, ogni vestito dal più “haute couture” a quello nella bancarella esiste in funzione di un corpo da vestire.
La differenza fra moda e arte è un tema lunghissimo da trattare, ma l’accento in questo caso vorrei porlo unicamente sul dialogo fra corpo e capo spogliandoci dalla necessità di inserire ciò che vediamo all’interno di un contenitore ben specifico (arte o moda??), in questo momento noi stiamo osservando oggetti.
Come detto, poco sopra, l’esposizione dà al fruitore la possibilità di girare a 360 gradi intorno l’abito eliminando così la monumentalità tipica dell’esposizione di moda che pone spesso le proprie opere all’interno di teche, così come sopra delle pedane o all’interno di scenografie monumentali.
Questa idea può risultare interessante perché chi guarda può notare ciò che contraddistingue la produzione di un abito. Il vestito, che vive in funzione del corpo, ha delle necessità che non possono essere ignorate, la persona su cui è pensato deve poter entrare e uscire dall’abito, deve poter muoversi, deve potersi sentire a proprio agio.
I principi funzionali dietro la realizzazione dell’abito soddisfano quindi diverse necessità derivanti sia dalla così detta ergonomia, sia da una sfera psicologica, comunicativa e sociale. Osservando a tutto tondo e con una tale vicinanza l’abito che ci troviamo di fronte, possiamo vedere quei dettagli che contraddistinguono il soddisfacimento di queste necessità, banalmente la zip che consente l’apertura dell’abito, così come i bottoni o gli eventuali drappeggi che costruiscono il volume.
Questa caratteristica della mostra, secondo il curatore, è una fruizione attiva dell’opera, sul termine attivo mi restano dei dubbi, ma sicuramente la possibilità di capire e vedere da vicino i dettagli che contraddistinguono il singolo capo conferisce alla mostra una forza non indifferente.
Avvicinandoci dunque ad un’opera di Yamamoto ci viene spontaneo chiederci, cosa rende così inedita la concezione di abito del designer?
Yohji Yamamoto combina nella sua produzione vestimentaria la sua cultura orientale con quella occidentale in maniera organica e naturale.
La storia della moda ci racconta come la moda stessa sia stata per tantissimi anni Eurocentrica portando così l’egemonia di un certo tipo di rapporto abito-corpo.
La possibilità di fondere le culture orientali con quelle europee porta un risultato inedito nella forma e nella funzione dell’abito finale, di fatti Yamamoto spoglia di funzionalità sociale l’abito, lui non disegna per chi è un avvocato, per chi è imprenditore o cassiere, ma disegna abiti privi di posizionamento sociale.
Il secondo punto da attenzionare quando andiamo a considera la possibilità di fondere ciò che è la moda occidentale con quella orientale, è la fusione delle silhouette, l’abito di Yohji Yamamoto prende gli archetipi tipici del vestire occidentale (come i panier o i bustier francesi, o gli abiti campagnoli tipici della cultura popolare) trasformandoli in elementi che privandosi dell’intento originale vanno a costruire forme, volumi e storie sul corpo di chi li indossa.
Come racconta Veronica Piersanti, Yamamoto traccia una nuova geografia del corpo riuscendo a spostare, mixare e cambiare tutti questi elementi tipici della moda occidentale. Questa concezione di vestire, che si sposa bene con le tendenze degli anni 80’ e 90’ (Yamamoto è molto attento a ciò che accade nel panorama internazionale), va a braccetto con l’idea di non finito che nella poetica dell’autore è un rifiuto della perfezione.
Secondo il designer la perfezione non sarebbe raggiungibile dal lavoro umano, allora chi crea dovrebbe concentrarsi sulle sensazioni, sulle emozioni e sul processo progettuale, per questo motivo si viene a creare un capo che non ha un inizio né una fine, in cui il tessuto si intreccia creando forme non simmetriche ed evocando un idea di abbigliamento ricca di strappi, cuciture non finite, orli non rifiniti e “abiti logori”, questo per il designer giapponese, è il non vestire uno stereotipo ma l’uomo contemporaneo e del futuro.
Yamamoto costruisce sul corpo senza affidarsi ad esso, secondo il designer il corpo sarebbe troppo mutevole per essere una certezza.
Sebbene disegnasse collezioni femminili, Yamamoto non creava l’abito sulla femminilità della donna, ma anzi, creava un prodotto carico culturalmente prendendo in eredità gli insegnamenti della cultura vestimentaria giapponese che vedeva nella curva, nel nascondere il corpo, nel non definire né sessualizzare i contorni del corpo femminile, un momento rivelativo dell’intimità di chi indossa il vestito.
Il corpo non è dunque reso oggetto dall’abito, ma quest’ultimo cerca di far emergere l’interiorità di chi lo indossa.
Il lavoro di Yamamoto resta rilevante per questo nuovo tipo di rapporto corpo abito che negli anni 80’ ha scardinato la concezione tipica e cristallizzata della moda occidentale.
Attraverso la sua poetica, che combina l’uso di materiali poveri come la mussola (utilizzata in genere per la progettazione di modelli) e la riduzione della palette colori all’osso, Yamamoto crea l’uniforme dell’uomo del futuro:
“Imbronciato, anche se facilmente ferito, piagnucoloso anche se in qualche modo sfrontato, delicato ma rozzo, irresponsabile e indifferente, goffo e agile, stranamente genuino ma in qualche modo dubbioso, che è in qualche modo amabile e che ha anche un’inconfondibile aria di timido, di profondità, di dignità che ci appare, quando guardiamo attraverso le crepe nel suo carattere, come spinta fuori dalla sua sfrontatezza.”
Talking to Myself, Yohji Yamamoto, 2002